KING: THE OUTSIDER (2018) IL MOSTRO C'È E NON FUNZIONA
Leggo Stephen King da vent'anni e mi sarà capitato giusto un paio di volte di rimanere poco soddisfatto da un suo libro. Ricordo per esempio di non essere impazzito per L'occhio del male, l'ultimo dei romanzi usciti originariamente con lo pseudonimo di Richard Bachman, o in anni più recenti per Colorado Kid (sebbene oggi abbia di entrambi un ricordo vago; li ripescherò sicuramente nel mio lento ma costante programma di rilettura kinghiana). Entrambi comunque avevano la scusante di essere degli esperimenti.
The Outsider è stata la prima esperienza negativa con un romanzo che rientra (o vorrebbe rientrare) nei canoni kinghiani classici. La lettura mi ha fatto penare al punto che non vedevo l'ora di finire per togliermelo di torno. Capire il perché non è stato subito facile, in quanto gli ingredienti per un buon risultato sembrano esserci, almeno in apparenza. Eppure non hanno funzionato, almeno non per me: quando un libro non prende, non prende.
Terry Maitland allena la squadra giovanile di baseball, è conosciuto e amato da tutta Flint City. Ralph, il capo della polizia, lo arresta di fronte all'intero stadio per l'omicidio a sfondo sessuale di un dodicenne dopo aver trovato impronte e DNA sul luogo del delitto. Ma il giorno dell'omicidio Terry era in un'altra città, e ci sono testimoni e filmati che lo dimostrano. Il caos che si genera finisce in tragedia: Terry viene ucciso davanti al tribunale in un atto di vendetta disperata. Per Ralph il caso è tutt'altro che chiuso perché, nel frattempo, a sostenere l'innocenza di Terry emergono altre prove inconfutabili. Poi, nella lontana Marysville si verifica un caso del tutto identico, che porta Ralph e alcuni collaboratori sulle tracce di un essere sovrannaturale del folklore messicano, chiamato El Cuco, in grado di assumere le sembianze di chiunque.
Primo problema: la banalità del mostro. Se da un lato è vero che King scriverebbe in modo accattivante anche della sua spesa settimanale da Walmart, qui attinge senza pudore da cinquant'anni di abili prove letterarie, creazioni e rivisitazioni di genere. C'è la figura del “babau”, un'entità fatta sostanzialmente di tenebra ma dotata di poteri al di là della realtà conosciuta, grazie ai quali può modificare il proprio aspetto e indurre la gente a fare ciò che vuole, nutrendosi al contempo della loro paura e impotenza. Nell'outsider del titolo ritroviamo un pezzetto di Randal Flagg (Torre Nera, L'ombra dello scorpione, ecc), uno di Pennywise/IT, uno del dio malvagio Tak (Desperation), uno dei vampiri psichici (Doctor Sleep), uno di George Stark (La metà oscura), e via dicendo. Non sarebbe di per sé una brutta cosa, se King fosse riuscito a creare una nuova incarnazione del male... il problema è che non ci riesce, perché adotta una soluzione di ripiego, licenzia il cattivo come qualcosa di piatto e frettoloso, privo di un ruolo e di una personalità cruciali (lo incontriamo in poche scene, tutte già viste in contesti migliori). Si presenta agli occhi del lettore come un incrocio tra i villains della mitologia kinghiana già menzionati e lo Spaventapasseri di Batman, e non serve a nulla tentare di agganciare questa scarsità di immaginazione a una leggenda messicana, menzionando la figura di El Cuco. Anche questa sembra una scelta di ripiego necessaria a fornire una parvenza di plausibilità, a tappare un buco. Insomma, la profondità e dunque l'impatto dell'antagonista sono pari a zero.
Secondo problema: i buoni non emergono. Ebbene sì, anche sul fronte degli eroi/antieroi troviamo una squadra superficiale, da telefilm, priva di carattere e che non suscita alcuna empatia. I protagonisti sono lontani anni luce da perle del calibro di Larry Underwood, Bill Denborough, Johnny Smith, o anche solo dalla galassia densamente popolata di personaggi meno iconici ma ugualmente vivi e tridimensionali (Dolores Claiborne, Rose Madder, Lisey, Ralph Roberts, Ted Brautigan, il recente Bill Hodges... ce ne sono a centinaia) che infonde da sempre forza e vita ai romanzi di King. I poliziotti di The Outsider stanno persino sulle scatole e l'unico con cui si simpatizza un po', all'inizio, è la vittima, Terry, che però a un quarto del libro ci lascia le penne. King riesuma persino Holly, co-protagonista della trilogia di Mr. Mercedes, collegando così The Outsider alle precedenti detective stories. Mossa irritante perché la signorina Holly non meritava affatto una resurrezione (molto meglio Hodges, piuttosto), e comunque inutile perché la presenza di un'autocitazione non aiuta il romanzo a riemergere dall'acqua stagnante.
Un terzo problema è la trama, o meglio il susseguirsi di indagini che trasforma la base puramente kinghiana in qualcosa che avrebbe potuto scrivere John Grisham. Credo che da questo problema derivino i primi due, perché se King avesse pensato meno a scrivere un giallo di polizia e più a scrivere un romanzo denso di mitologia e horror, il risultato sarebbe stato migliore. Forse non un capolavoro, ma almeno degno del nome. Per dire, se King avesse scritto The Outsider negli anni Ottanta o Novanta avremmo in mano qualcosa sulla riga di lavori non eccelsi ma buoni come Tommyknockers, L'acchiappasogni o Duma Key. Ho letto buone recensioni in cui si dice che il romanzo discute la presunzione di innocenza degli indagati, il sistema giuridico americano, le condanne di innocenti e le assoluzioni di colpevoli sulla base di prove inaffidabili, eccetera. A me non sembra che queste riflessioni siano rilevanti: non siamo davanti a Il miglio verde o Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank. Credo che, se sono presenti, ed è un se bello grosso, siano un misero effetto collaterale. Chi legge King non cerca arringhe di poliziotti e avvocati che discutono se il sistema giudiziario sia o meno fallace, ma qualcosa di magico, intimo e disturbante. Non c'è niente di tutto questo nelle pagine di The Outsider, che considerando la resa finale sono un numero fin troppo alto. E qualcuno (non ricordo chi, né dove l'ho letto, ma è vero) ha osato paragonarlo a IT. Dovrebbero imporre una legge per vietare la menzione inopportuna di IT e altre pietre miliari come veicolo promozionale fraudolento.
Ora, in cinquant'anni di carriera uno scivolone del genere lo si può perdonare facilmente, però è frustrante rendersi conto che persino con King vale il detto che c'è sempre la prima volta. Giunti al punto in cui eravamo, con lo Zio ormai settantenne, ero davvero convinto non arrivasse mai.
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Ciao, quoto parola per parola. Sono a pagina 478 e non vedo l'ora che il libro finisca, peccato perché dopo un inizio molto intrigante, da metà libro in poi è stata la noia più totale! Parlano parlano....e non succede nulla...
RispondiEliminaSperiamo in The Institute :)
EliminaVero, ma non ci avevo pensato prima. La scrittura di King così fluente ogni tanto ti fa dimenticare anche di cosa stai leggendo...e non va bene
RispondiElimina