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IL MIO PASSATO È UN FIUME MALVAGIO: WILLIAM S. BURROUGHS, LETTERE 1946-1973


“Io non sono come te, Jack. A me serve un pubblico. Certo, un pubblico piccolo. Ma comunque mi serve la pubblicazione per crescere.”

Iniziare da queste parole, a poche pagine dall’inizio del volume, mi ha sconcertato, perché, nella mia immaginazione, come poteva lo “strumento di registrazione” per antonomasia, Lee Burroughs, preoccuparsi di ricevere il riscontro di qualcun altro, più di quanto se ne crucciasse quel Jack Kerouac che negli stessi giorni ambiva nientepopodimeno che al Grande Romanzo Americano? Poi, però, durante la lettura delle oltre trecento pagine di Lettere 1946-1973, tutto è tornato a quadrare, perché in fondo, all’origine di ogni cosa e alla fine di ogni cosa, c’è la Parola. E la Parola plasma ed è plasmata dalla realtà. Perciò sì, “uno scrittore può essere rovinato sia dal troppo che dal troppo poco successo”. E questo ha valso anche per William S. Burroughs sin dall’inizio.

Così la Sua Parola prende forma, sulle labbra e tra le dita di un giovane dapprima incerto e inconsapevole dell’onorevole fardello, quell’essere “tossico omosessuale pecora nera di buona famiglia”, che porta su una spalla. Sull’altra c’è la scimmia, e sotto al braccio i codici Maya, uno dei suoi primi interessi che la dicono lunga su ciò che verrà. Via, giù dalle strade morte a quelle più vive che mai, da New York al Texas, poi da Algeri a Città del Messico, e ancora più giù, nel Sud America amazzonico alla ricerca dello yage (l'ayahuasca), tra un viaggio e quello successivo, una disintossicazione e quella successiva, spinto da un solo vento: “terrificanti incubi di stasi”. Da qui Junkie (La scimmia sulla schiena), Queer (Checca/Diverso a seconda delle traduzioni) e le Yage Letters che si scambia con Ginsberg, il suo amico di penna – e amore/amante e curatore/agente – numero uno per molti anni. Un movimento costante tanto sulla strada quanto sulla pagina scritta, perché – e qui irrompe un’altra verità inattesa – Burroughs è un artista consapevole, meticoloso, ordinato, anche se il suo ordine interiore ci appare – a noi – come una stanza in assenza di gravità, in cui tutte le cose sono per aria. Così riordina i manoscritti, rimuove e aggiunge sezioni, prende coscienza verso quella che diventa la sua prima forma d’arte: la routine, intesa come fatto, vicenda, esperienza, storiella, farsa. Una Parola, tante facce, quanto quelle del suo autore, ma nessuna “rinsecchita dal cancro delle istituzioni”. No, a questo riesce a sottrarsi.


Quando fugge a Tangeri tra il 1954 e il ’59, gli ultimi giorni dell’indipendenza marocchina, è di routine che vive, di giorno e di notte e di inchiostro. Perché è di routine che vive la sua Interzona, Terra Promessa burroughsiana lastricata di sudiciume e pullulante di ragazzi, fonte e nutrimento della Parola. Niente di più lontano dagli States ritratti da Kerouac oltremare, forgia dell’immagine mediatica della Beat Generation, piuttosto un antidoto al prosciugarsi della vitalità e alla “malnutrizione spirituale” di cui l’America, burocratizzata e repressiva, soffre. “La routine nasce da qualsiasi conoscenza frammentaria a disposizione”: imprecisa per natura, non può essere esaustiva, la si vive quando capita, la si registra quando avviene. Una mente nozionistica non può esserci portata. “Questa è una faccenda o tutto o niente, una storia selvaggia che si realizza.” Da qui Pasto nudo, assemblato da Ginsberg con l’aiuto di Kerouac dalle pagine dattiloscritte fitte di routine che Burroughs invia regolarmente a mezzo posta, e Interzona, un’antologia postuma. Poiché “la burocrazia repressiva è una cospirazione su vasta scala contro la Vita”, allora è la Vita che Burroughs celebra, ed è della celebrazione della Vita che scrive, e l’unico modo che per scriverne è “uscire dal mio corpo e viverla”. Una storia selvaggia che si realizza. Adesso. Mentre “il romanzo tipico è già accaduto, questo romanzo sta accadendo”.

E se Pasto nudo può sembrare folle – una follia che vende piuttosto bene considerati i tempi non ancora maturi per la rivoluzione sessuale che verrà – il suo autore non lo è di certo. Lui ha sempre, in ogni istante del suo sballo chimico quotidiano, perfettamente chiara la differenza tra ciò che è follia e ciò che non lo è: “un’allucinazione da peyote è un fatto, ma non è sullo stesso piano di un oggetto concreto esterno. La follia non consiste nel vedere cose che non ci sono ma nel confondere i piani.” Lui è sempre, in ogni sentenza del suo carteggio liberatorio, lucidissimo sulla sua posizione: “l’invidia e il risentimento sono possibili soltanto quando non riesci a vedere la tua collocazione spaziotemporale”.


A Tangeri seguono gli anni di Parigi e Londra, dopo che la sua Interzona muore e comincia a puzzare di stasi e repressione. Un nuovo decennio che si apre, i Sessanta, nel quale nuove relazioni prendono il posto delle vecchie e lo spazio occupato finora nel cuore, nella carriera e nella corrispondenza di Burroughs da Allen Ginsberg, viene preso da Byron Gysin. Ed ecco la seconda illuminazione: il cut-up, la nuova manipolazione della Parola e dell’Immagine che ne sfrutta appieno la capacità di rispecchiare e al contempo modificare la realtà. Da qui la Trilogia Nova (La macchina morbida, Il biglietto che esplose, Nova Express) e altre pubblicazioni di minore successo (The Third Mind, Ragazzi selvaggi), ma il raggiungimento di un certo status gli porta anche malcontenti editoriali, qui pro quo mediatici, travisamenti delle sue dichiarazioni pubbliche, soprattutto sul tema della tossicodipendenza e delle cure di disintossicazione da lui sperimentate.

Il cut-up è la chiave di interpretazione dell’intero pensiero burroughsiano. Cut-up vuol dire tagliare pezzi di discorsi e frasi e immagini e video e sonoro, e ricombinarli in un ordine diverso da quello precostituito. Sovvertire l’ordine precostituito. Decifrare codici e creare altri codici. Sterminare ogni pensiero razionale (parafrasando Cronenberg). Perché la Parola è virus, e può infettarci, controllarci, cambiarci, e in effetti ci ha già cambiato, lo fa dal giorno in cui veniamo al mondo: “cos’è che vi ha spaventato tanto e vi ha spinto nel tempo? Nel corpo? Nella merda? Ve lo dico io. La parola.” Letteralmente ci incatena. L’essere umano ha perso la facoltà di scegliere il silenzio, sottolinea Ottavio Fatica nella Postfazione Atrofizzata del volume. È così: provate a definire il silenzio senza passare dalla parola Silenzio, scritta o verbale. Il controllo è ripetizione e la ripetizione è decadimento. “Una barzelletta può far ridere la prima volta, ripetuta 500.000.000.000.000.000.000 volte non solo non fa ridere ma diventa radioattiva. La vita su questo pianeta è stata ripetuta così tante volte che adesso l’unico applauso proviene da contatore Geiger isterici”. Tale è il potere della Parola. Amen.

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Di nuovo… Follia? No, affatto. Il messaggio di Burroughs è limpido quanto il suo senso del grottesco, la sua costante ammissione della gravità delle dipendenze, ma anche il riconoscimento di certe esperienze “paranormali” indotte dalla droga come strumenti sine qua non per sbirciare oltre il velo di Maya che avvolge il mondo e tutti noi. Le sue intuizioni geniali e avanguardistiche si agitano nel turbine tossico-narrativo che intorbidisce la superficie, ed è per questo che di solito è così difficile vederci attraverso. Questo carteggio (assieme alle Interviste già pubblicate, alla biografia di Barry Miles e altro ancora) ci dà una lenza per farle emergere in superficie quel tanto che basta, ed eccole lì che si dibattono nel veleno dell’aria e del sole, che strappano per tornare nelle sicure profondità dell’allegoria e del limo sensoriale. Scrivere è un atto pericoloso, questo Burroughs ce lo ha sempre detto, e la parte pericolosa si annida proprio lì sotto.

Sterminare ogni pensiero razionale, certo, perché ogni pensiero razionale è generato da un sistema di controllo. La Parola e l’Immagine, come virus, si insinuano nei soggetti, li infettano e li controllano. Ma se Parola e Immagine sono i mezzi di controllo del sistema, veicoli di morte e annichilazione del pensiero libero, possono anche essere decodificati, decriptati, ribaltati e utilizzati per sradicare quel controllo, diventando mezzi votati alla celebrazione della Vita e dell’irrazionale. Perché se il razionale equivale al controllo, l’irrazionale equivale alla Vita. Se tutto è vero, tangibile e razionale, allora niente è concesso, e il controllo imperversa. Ma se “niente è vero, tutto è permesso. Ultime parole di Hassah Sabbah il Vecchio della Montagna”. In un punto verso la fine del volume, siamo ai primi anni Settanta, Burroughs si chiede se il sesso sia davvero una parte della vita. Alla luce di tutto ciò, la risposta che dà subito dopo è ovvia: “sbagliato. È tutta la vita e tutto il tempo.” Alla sua personale forma di rivoluzione sessuale lui l’ha dedicata davvero, la vita, esattamente come alla sua personale rivoluzione letteraria, che non è quella Beat, anche se si innesta in essa più che altro per simultaneità spaziotemporale. Come per tanti artisti, e con artisti intendo innovatori, quindi la cerchia più ristretta del termine, queste rivoluzioni gli verranno riconosciute in gran parte a posteriori, specie se guardiamo alle nostre latitudini. Ma lui, oh, lui lo sapeva. Sapeva di avercela fatta.

Nel 1972 William Burroughs non può indovinare che le sue Terre Occidentali distano ancora un quarto di secolo, e con il solito mix di cognizione, black humour e oscurità, scrive: “Sul set rimane pochissimo tempo. La rivoluzione è finita e abbiamo vinto.
LA PAROLA CADE
LA FOTOGRAFIA CADE
L’IMMAGINE CADE
CAMBIO DI SCENA UNA CAMERA OSCURA
Chi vince non prende nulla. Non è rimasto nulla. Prendiamo i $ giusti per restare fino alla fine.”
E nella risposta a un’assurda, farsesca, ma proprio per questo tutt’altro che fuori luogo, proposta di matrimonio ricevuta per posta da una completa sconosciuta nel ’73, anno con cui il volume si chiude, smonta in due parole qualunque stolto che prenda ogni cosa alla lettera, se stesso per primo: “tutto è illusione poco ma sicuro ma alcune illusioni funzionano e altre no.”
Be’, grazie, Lee, per aiutarci a discernere la differenza.





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