COUNTING CROWS 2014: SOMEWHERE UNDER WONDERLAND
Dopo 6 anni da Saturday Nights & Sunday Mornings, i Counting Crows pubblicano il loro 6° album di inediti dal titolo Somewhere Under Wonderland. Questa band, a mio avviso, non ha sbagliato mai un colpo, dosando i dischi con parsimonia e azzeccandoli tutti, peraltro diversi l’uno dall’altro. L’evoluzione musicale e lirica li ha portati a una vetta molto alta con il precedente lavoro, che era insieme una summa e una rivisitazione del loro stile e dei temi più tipici trattati da Adam Duritz sin dai tempi di August And EverythingAfter. Talmente alta che il nuovo album non avrebbe potuto eguagliarla: questo lo avevo messo in conto. Che fosse però il punto più basso nella loro discografia, questo non me lo aspettavo.
In
ogni caso, i Corvi fanno ciò
in cui sono bravi. Il peggio che si può dire è che si tratta di un
disco più anonimo e mainstream degli altri. Duritz ha una voce
sempre splendida e la capacità di scrivere testi variopinti, mosaici
di sensazioni e immagini in uno stile che ricorda il beat. I testi,
se ci si prende la briga di leggerli, sono in effetti la parte
migliore del disco. Musicalmente, invece, mi ha sorpreso in modo
negativo la povertà di arrangiamenti: i brani elettrici sembrano
fatti con lo stampino e quelli acustici pure. Ci sono poche
eccezioni, le canzoni che spiccano su tutte sono “Dislocation” e
“Possibility Days”. Poi c’è il singolo insignificante
(“Earthquake Driver”) e il brano lungo in stile “Round Here”
(“Palisades Park”, che però è solo l’ombra dei suoi
predecessori), i semplici riff acustici (“God Of The Ocean Tide”,
che ci azzecca piuttosto bene comunque, e “Cover Up The Sun”) e
il giro più “già sentito” tra tutte le loro canzoni (“Mr.
Appleton’s Lament”).
In
generale la sensazione è di un album manieristico, almeno
nell’esecuzione e negli arrangiamenti, ma anche povero
dell’innovazione e della personalità compositiva che era la firma
dei Corvi in tutti i precedenti dischi. Le loro peculiarità qui sono
appena accennate in due o tre brani, il resto sa di riempitivo,
un po' come Lightning Bolt dei Pearl Jam, anch'essa una prova poco riuscita. Fossero una band da un
disco all’anno, non ci sarebbe da dire nulla, ma dopo 6 anni di
attesa l’amaro in bocca è inevitabile. Poi, ascoltato d’un
fiato, in auto o in salotto come sottofondo, è piacevole,
incalzante, migliore di molte altre cose in circolazione: se lo
prendiamo così, e leggiamo il booklet, vale comunque qualcosa.
Le
uniche rarità di cui sono a conoscenza sono due demo nella versione
deluxe del disco.
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