NEIL YOUNG & CRAZY HORSE: AMERICANA
Dunque,
Americana è una sorta di “prova generale” degli Horse dopo un
decennio di ruggine (la quale, lo sappiamo, non dorme mai, ma Talbot,
Molina, Sampedro e Young sanno come grattarla via quand'è il momento).
Come
giudicare Americana? Non è facile, data la sua natura. O magari è
più facile, se consideriamo che non è necessario ponderare troppo sul contenuto dato che non è
farina del nostro songwriter. Ad essere importante, più che
altro, è la forma in cui ci viene presentato. A rigor di logica dovrebbe essere qualcosa di originale ed interessante per poter
giustificare il recupero di brani tradizionali, alcuni dei quali noti, altri per niente (almeno sul nostro lato +dell'Atlantico).
Seguendo
questo ragionamento, il sound dei Crazy Horse (una garanzia) fa di questo album un ottimo album. Il Cavallo galoppa in grande stile, come ci si aspetta, nodoso
e furente, ma anche sorprendentemente curato. Non esito a dire che
l'incisione e il missaggio di Americana, nel suo complesso, sono
migliori di tutti gli ultimi dischi di Young dopo Prairie Wind (e con la doverosa eccezione di Le Noise), e questo è vero nonostante la sporcizia e le imprecisioni che da sempre caratterizzano le esecuzioni degli Horse. Siamo tornati a un equilibrio nell'equazione
“spontaneità+postproduzione”, un po' come in Ragged Glory o
Broken Arrow, bei dischi che vanno
dritto al segno. Insomma, l'alchimia è tornata.
Date
queste premesse, il trattamento dei traditionals si fa stuzzicante: è quasi logico che i Crazy Horse
snatureranno queste (apparentemente) spensierate canzonette per ricavarne qualcosa di diverso, più nero e malinconico. A riprova di
ciò, Young ha dichiarato che le sue intenzioni erano esattamente
queste: riportare le ballads
alla loro essenza originale, decisamente più triste e oscura del
colore con cui sono state ridipinte nel corso dei decenni in nome del buon costume (in USA sono praticamente canzonette che i bambini
cantano nelle scuole).
Basta
leggere i testi per rendersene conto e ascoltare Young che li porta prevalentemente in tonalità minori. “High
Flyin' Bird” è un buon esempio del lavoro nel suo complesso, uno
dei punti più alti dell'album (almeno a mio parere); è una canzone
che sembra venire dalla penna di Young e che il sound del Cavallo
rende magistralmente, al pari di “Down By The River”.
Analogamente, la lunga marcia di “Tom Dula” potrebbe rientrare
tranquillamente tra le sgangherate cavalcate della band. Un'altra
highlight è
certamente “Oh Susannah”, dal timbro funky per nulla
ricollegabile al country tradizionale con cui la identifichiamo solitamente.
La scelta dei brani calza con il trattamento garage
rock
dei ragazzi. Non si distinguono poi così tanto da canzoni partorite
in proprio. Già questo fa di Americana un album riuscito; la stessa
cosa che si è detta per Underwater Sunshine dei Counting Crows
(disco di cover con cui sono usciti quest'anno) che fa la sua bella
figura in mezzo ai loro album come se ne fosse semplicemente
un'estensione.
Anche
Americana è un'estensione. Omicidi e amori spezzati, minatori e
simboli di libertà, morte e fede: murder
ballads, ministrels, gospel
diventano gli aggettivi per descriverlo. Dimenticatevi di allegri
coretti che intonano “oh Susanna non piangere perché...”.
Sarebbe devastante pensare che un disco di Neil Young & Crazy
Horse possa essere così. No, qui abbiamo un esempio della canzone
della vecchia America, quella dei carri coperti più volte menzionata
da Young nelle sue lyric, confezionata in una veste
rockettara e audio-veritè. Forse semplicemente un ponte
fra due epoche che hanno ancora molto in comune. Sarà solo un caso,
infatti, che Young abbia scelto di inserire il rockabilly di “Get A
Job” (“Trova un lavoro”)? O un'ennesima reintepretazione
di “This Land Is Your Land”? E persino “God Save The Queen”?
C'è
qualcosa che va oltre il semplice gusto di riunire la band e suonare
ad alto volume questi vecchi classici, allontanandosi dalle
difficoltà del creare brani propri. Non c'è bisogno di grandi
propositi, basta saper dosare gli ingredienti giusti e cogliere le
idee giuste. Young, anche se non sempre l'ha fatto, ha però sempre dimostrato di saperlo fare. In Americana l'ha fatto e
il risultato è migliore delle aspettative (perché,
siamo onesti, all'inizio cosa abbiamo pensato tutti, quando
abbiamo saputo di un disco di cover con “Oh Susannah”?). Un altro punto per lui.
Un
ultimo consiglio gratuito: andate ad ascoltarvi anche la Jam
(intitolata Horse Back) pubblicata in streaming dal sito ufficiale;
35 minuti di jam-session che
sfociano in una torrenziale “Cortez The Killer”.
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