NEIL YOUNG: LIVE AT FILLMORE EAST, MASSEY HALL & CANTERBURY HOUSE
LIVE AT FILLMORE EAST 1970
(2006)
Con questo storico concerto si apre la serie di live shows che vedranno la luce nel progetto Archivi di Neil Young, che ripercorrerà la sua carriera aggiungendo un bel po' di materiale alla sua già sostanziosa discografia.
Questa prima (ma non cronologicamente
parlando) pietra miliare registrata nel marzo 1970 in due date al
Fillmore East, ci presenta l’originaria line-up dei Crazy Horsecon Danny Whitten alla chitarra ritmica, quel Danny
Whitten che morirà pochi anni dopo a causa dell’eroina gettando Young in un periodo buio ma anche estremamente creativo. La
potenza sonora di questo concerto è disarmante, l’età dei master
sembra ancor più valorizzare la resa finale. La scaletta è breve per la scarsità
del materiale recuperato, ma quelle sei canzoni valgono come
diamanti.
Innanzitutto le due cavalcate di “Down
By The River” e “Cowgirl In The Sand” (12 e 15 minuti
rispettivamente, ovvero metà dell'album). Grazie al virtuoso
duettare Young-Whitten, giovanissimi e rampanti cavalli pazzi, e al contributo di Jack Nitzsche al pianoforte, queste
versioni splendono anche più delle precedenti in studio (nell'album Everybody
Knows This Is Nowhere, 1969).
Altre due gemme sono “Winterlong” e
“Wonderin’”. La prima la conosciamo dall’antologia Decade, dove è presente in una versione studio elegante, ma al Fillmore vibra molto più appassionata. Così anche per “Wonderin'”, rivisitato in una versione brillantinata assai poco dignitosa su Everybody’s
Rockin’, e qui godibile nella sua veste autentica e grezza. Young la presenta come una nuova canzone del loro
nuovo album, “quando lo registreremo”: si sarebbe intitolato probabilmente Oh Lonesome Me, ma le session non sono mai state completate.
Infine ci sono “Everybody’s Knows
This Is Nowhere” e “Come On Baby Let’s Go Downtown”,
quest'ultima apparsa in Tonight’s The Night nella stessa
versione del Fillmore (però editata).
Questo cd documenta la nascita di un mito. I Crazy Horse avranno molti altri periodi
d’oro (Zuma, Rust Never Sleeps) con Frank Sampedro al
posto di Whitten. Ma qui siamo alle origini, agli albori, alla
ruggine, o meglio al suo antidoto, che cominciava a scorrere nelle vene di Young & compari trasferendosi ai giganteschi Fender alle
loro spalle.
LIVE AT MASSEY HALL 1971
(2007)
Questo non è un disco che ascolterete
alla radio. Nemmeno Harvest lo sentite più: oggi va di moda dire che è fuori moda. Ma è solo ascoltando
cose come Live at Massey Hall che oggi ci si può teletrasportare (almeno con le orecchie) nell'epoca d'oro della Musica e, in particolare, di Neil Young.
In questo concerto snocciola brani
dal suo ultimo successo, After The Gold Rush, e il suo prossimo, Harvest, che doveva ancora
essere registrato e pubblicato. Tutte gemme che lo hanno
consacrato nell'olimpo musicale, praticamente un greatest hits.
Ci sono le novità del
momento (“Tell Me Why”, “Old Man”,
“The Needle And The Damage Done”, “Don't Let It Bring You
Down”), le cose del passato recente (“On The Way Home”,
“Helpless”, “Ohio”, “Cowgirl In The Sand”) e quelle del
prossimo futuro (“See The Sky About To Rain”, “Love In Mind”).
Young potrà piacere
o meno, sul gusto personale non si può discutere, però
quando arrivano dischi come questo vale la
pena cercare di scuotere un po' delle ultime generazioni-zombie (ci metto dentro anche la mia, sono un 1985) urlando: ECCO COSA CI SIAMO PERSI! Questo è un pezzo di storia. Sembra che Young (25enne all'epoca dell'esibizione) sia ancora là, al Massey, tutto esaurito, da brividi, a suonare per un
pubblico che sapeva ascoltare.
Ecco perché la ciclopica audiobiografia Archives sarà una seconda opportunità per poter seguire Young lungo la sua vasta e mirabolante carriera.
SUGAR MOUNTAIN - LIVE AT CANTERBURY HOUSE 1968
(2008)
“Ci avete davvero sconcertati perché
ci aspettavamo solo... ehm... molta meno gente...”
Inizia così l’esibizione alla
Canterbury House pubblicata nella Performance Series come
disco n°00. Ad esibirsi è un Neil Young piuttosto nervoso e
sorpreso di trovarsi di fronte alla sala piena. Le due serate del 9 e
del 10 novembre 1968 fanno inaspettatamente il tutto esaurito.
Se Live at Massey Hall 1971
ci ha trasportato nel suo momento d’oro attraverso una
delle più spettacolari e acclamate esecuzioni della sua intera carriera,
qui Neil Young non è nessuno. Non ancora. O meglio, è stato “solo”
un membro dei Buffalo Springfield, sciolti da pochi mesi.
Young ha quindi deciso di imbracciare la chitarra acustica e improvvisare un
tour di 22 serate tra il 1968 e il 69 in piccole sale e club.
Sfodera buona parte del
suo ancora stretto repertorio: le canzoni dei Buffalo e quelle che
sta scrivendo negli ultimi tempi, destinate al suo primo album solista
(Neil Young, 1968). Tra una canzone e l’altra parla tradendo il suo nervosismo, spara cazzate a tutto spiano
suscitando le risa del pubblico (racconta ad esempio di quando ha
lavorato per due settimane in una libreria). Poi chiede se qualcuno vuole
suonare qualcosa perché lui non sa cos’altro fare. Ogni tanto
strimpella due accordi di “nuove melodie” e, a un certo punto,
riconosciamo un acerbo riff iniziale di “Winterlong”. In
sottofondo il sottile frusciare della bobina che gira accompagna
tutto il disco regalandoci il sapore di audio-veritè.
Ignorate i commenti che girano sul web, tipo "l’ennesimo live acustico". Ci troviamo di fronte a un album, dunque, che va oltre qualunque recensione. E' una registrazione storica, nel senso
che ha un valore storico: documenta uno dei momenti cruciali della
carriera di un artista, offrendocelo per com’era allora, diverso da
ciò che è stato dopo, diverso da ciò che era pochi mesi prima.
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